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SINISTRA E MOVIMENTI DI FRONTE AL VOTO SULL’AFGHANISTAN
21/07/2006 - 22:00:00 - a cura di Michele Di Schiena
La questione del voto sull’Afghanistan pone alcuni interrogativi. C’è un solo parlamentare della sinistra radicale che non sia stato cosciente, all’atto della sua candidatura nelle recenti elezioni politiche, del fatto che il suo partito aveva accettato, per battere la destra berlusconiana, di far parte di uno schieramento che, in caso di vittoria, avrebbe portato avanti un programma frutto di un compromesso e necessariamente non del tutto in linea con le sue scelte personali sui grandi temi del superamento del liberismo e del “no” assoluto alla guerra? Ed a tutti i candidati al Parlamento della sinistra radicale non erano forse noti i rapporti di forza esistenti all’interno dell’Unione tra il riformismo e tale area sicché il programma, quello esplicito scritto all’atto dell’alleanza e quello implicito da scrivere con decisioni e comportamenti durante l’arco dell’intera legislatura in rapporto alle diverse evenienze ed emergenze, avrebbe certamente risentito di tali rapporti di forza notoriamente favorevoli all’area riformista? E se, nonostante questa consapevolezza, si sono accettate quelle alleanze e quelle candidature, che senso hanno, di fronte al primo impatto con una difficile realtà, le dissociazioni di oggi peraltro in contrasto con le indicazioni dei partiti di appartenenza? Certo, alcune scelte del proprio schieramento possono essere ritenute da un parlamentare incompatibili con la sua coscienza ma perché ciò sia giustificabile deve trattarsi di scelte non prevedibili al momento della candidatura mentre la decisione riguardante il finanziamento della missione militare in Afghanistan era ben prevedibile da parte di chiunque conoscesse la “storia” di quel conflitto ed avesse seguito le espressioni di voto dell’area riformista e le tante dichiarazioni dei suoi leaders prima e durante la campagna elettorale. E sì, perché solo la estraneità al programma (quello esplicito e quello implicito che pure è una realtà) e l’assoluta imprevedibilità della scelta della maggioranza dello schieramento possono creare un comprensibile caso di coscienza nel parlamentare e possono rendere accettabile il suo voto di dissenso liberando il parlamentare medesimo dalla responsabilità delle conseguenze che tale voto può determinare. E sulla questione dell’Afghanistan tali conseguenze possono essere davvero serie. Si può allora ben brindare se un governo cade o va in difficoltà su una questione di guerra quando c’è però una prospettiva di miglioramento ma bisognerebbe segnarsi a lutto se questa prospettiva non esiste e ce n’è invece una di arretramento politico generale specialmente sul versante della politica estera per non parlare di quello della politica economica. Il fatto è che il voto sul finanziamento della missione militare in Afghanistan ha messo il dito su una piaga, quella del difetto di chiarezza nella distinzione fra il ruolo della sinistra radicale oggi al Governo e quello della sinistra movimentista o di coscienza. Una distinzione che spesso, specialmente nel momento delle candidature, diviene evanescente per le esigenze elettorali che premono sui dirigenti di partito e per le ricorrenti inclinazioni dei più noti esponenti del Movimento di passare dall’esperienza di sensibilizzazione e di lotta sociale a quella dell’impegno partitico-istituzionale. Un passaggio questo del tutto legittimo ma che può in qualche caso indebolire l’esperienza movimentista senza giovare al partito di approdo e che può essere foriero di confusione e di contraddizioni quando viene vissuto dai protagonisti pretendendo di accomunare responsabilità e ruoli che hanno indubbiamente la stessa matrice ideale e gli stessi obiettivi ultimi ma che sono diversi per metodo, strumenti, contenuti e risultati da perseguire nel breve e medio periodo. Si pone allora a sinistra un duplice problema. Da una parte, quello dei rapporti tra la sinistra riformista o moderata e la sinistra radicale chiamata in questa fase della vita politica del Paese a trovare ed a coltivare una intesa sotto la pressione di una specie di stato di necessità determinato dalla perdurante minaccia di un berlusconismo rivelatosi deleterio per gli interessi generali e specialmente per quelli dei ceti meno tutelati. Una intesa quindi indispensabile che, salvo il caso di gravi violazioni delle linee di impegno del programma esplicitamente o implicitamente concordato, deve essere salvaguardata da tutte le insidie comprese quelle rivenienti da particolari sensibilità personali o di gruppo. E lo si deve fare cercando, sotto la spinta esterna del movimento dei movimenti, di spostare l’alleanza verso “equilibri” sempre “più avanzati”. D’altra parte, c’è poi il problema del rapporto fra la sinistra politica radicale e la sinistra movimentista (alla quale mi sento particolarmente vicino) che va vissuto senza separatezze ma nella più limpida ed effettiva autonomia reciproca. E quindi tenendo presente che la prima è chiamata a farsi carico dell’estrema gravità dell’“oggi” cercando per quanto possibile di aprirlo al “domani” mentre la seconda, sentendosi anche parte di un vasto moto che va ben oltre i confini nazionali, deve costruire giorno dopo giorno nella coscienza collettiva questo “domani” restando rigorosamente fuori dall’area del potere in un ruolo di netta opposizione propositiva a tutto ciò che ostacola il cammino verso l’“altro mondo” che molti segnali di speranza continuano ad indicare come davvero “possibile” .
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